Premessa
Come gli altri racconti della serie Bandiera gialla e nera, Fuggiaschi proviene dalla mia raccolta di racconti brevi. È uno scritto di molti anni fa al quale sono molto affezionato, ma che difficilmente avrei destinato alla pubblicazione se non si fosse presentata l'occasione di celebrare il 75° anniversario del 25 aprile, data nella quale gli Italiani festeggiano la Liberazione del Paese dalla dittatura e dai suoi orribili misfatti.
Giovanni Zanzani
Fuggiaschi
A vederli, Carlo e Tina potevano sembrare marito e moglie, mentre erano fratello e sorella. Ultraottantenni, stavano nell’appartamento di fronte al nostro, a due passi dall’università di Bologna. La zona, un tempo popolare, si era trasformata negli ultimi anni in uno di quei quartieri che venivano chiamati esclusivi, nel senso che avevano escluso chi ci abitava. E infatti i poveracci se ne erano andati tutti per far posto ai nuovi predatori, individui emergenti di tutte le classi sociali. Solo nei palazzi non ristrutturati si poteva vedere qualche studente (come me e come gli altri coi quali condividevo la casa) o qualche pensionato per i quali, si sa, i posti scalcinati costituiscono l’habitat naturale.
Era il martelletto da ebanista di Carlo a svegliarmi al mattino quando lui si metteva al lavoro, colpetti appena udibili nonostante provenissero dalla stanza attigua alla mia e che facevano pensare allo zampettare di un topo. Gli antiquari della città si mettevano in fila per avere le sue cornici, ma le esili forze gli permettevano di accontentarne solo qualcuno, quel tanto che bastava ad arrotondare la magra pensione sociale.
I due anziani conducevano vita alquanto ritirata, lui lo si poteva vedere al mattino tra le bancarelle del mercato a fare la spesa, lei rispondere al postino o ai pochi venditori che ancora si avventuravano sulle scale sconnesse del palazzo.
La gamba di un tavolo ci aveva fatto conoscere. I nostri pavimenti avevano l’aspetto di una vela gonfia e tutto ciò che vi era posato pendeva minacciosamente verso il centro delle stanze. Per far stare dritto un tavolino pensai di chiedere aiuto a Carlo. Prese il via in quel modo un’amicizia che sarebbe durata molto più a lungo del mio corso di laurea e che ha avuto fine quando Carlo è morto.
Da principio i nostri rapporti si limitarono alla consegna dei giornali vecchi, la sola cosa che Carlo ci aveva chiesto in cambio del lavoro eseguito sul tavolino. Lungi dall’essere una seccatura, quell’operazione ci evitava la fatica di trascinare in strada il pesante carico di carta che si accumulava ogni mese. Ciononostante il nostro vicino ci era grato di quel dono.
Passò qualche anno, le lauree decimarono la compagnia, la fornitura di giornali al signor Carlo divenne un incarico esclusivamente mio. Un giorno non seppi resistere alla tentazione di chiedergli che uso facesse di tutta quella carta. Fu così che entrai per la prima volta nella loro abitazione.
La Tina si mise subito a preparare il caffè mentre Carlo ed io ci sedemmo intorno al tavolo della cucina. Carlo cominciò con lo spiegarmi che per lui leggere i giornali era una cosa molto bella. Il fatto che fossero vecchi non gli importava granché, anzi gli dava la possibilità di giudicare le notizie con maggiore obiettività.
-Così so già se si tratta di stupidaggini.-
Io lo seguivo e intanto osservavo la stanza. Tra quei muri il tempo sembrava essersi fermato, il secchiaio di graniglia con un piccolo rubinetto di ottone, i pochi mobili frutto di ingegnosa autarchia, i fili elettrici sospesi a isolanti di porcellana, gli interruttori di bachelite scura, tutto apparteneva al passato. Una debole lampadina dai filamenti lunghi e rossastri rischiarava a malapena l’ambiente. L’immagine che ne scaturiva era quella di una abitazione di cinquanta anni prima. La Tina ci servì il caffè.
-Li leggo anch’io sa, i suoi quotidiani, anche se riportano solo delle brutte cose.- Carlo assentì, poi aggiunse: -Per fortuna alla fine li bruciamo.-
Mi guidò fino a una stanzetta dove, in un mastello, la carta dei giornali si inzuppava nell’acqua. Sul balcone un centinaio di palle stavano allineate ad asciugare. Conoscevo il procedimento per aver sentito raccontare dai miei genitori che così ci si scaldava negli inverni di guerra.
Dopo quella volta, presi a frequentarli con regolarità. Ogni settimana passavo un pomeriggio da loro. Si stava seduti per un’oretta a prendere il caffè, che la Tina serviva sempre con qualche biscotto. In quelle occasioni lei era raggiante, mi chiedeva degli amici che non abitavano più lì e rideva di tutti i suoi anni. Carlo taceva lasciando alla sorella il tempo di sfogarsi, poi con la scusa di fumare si ritirava insieme a me nel laboratorio.
Era questo uno stanzone con massicci banchi da lavoro allineati lungo le pareti. Ai muri stavano appese cornici di ogni tipo lavorate a mano. Su di un tavolo più piccolo erano allineate una cinquantina di sgorbie. Giunto nel suo regno, Carlo tirava fuori un fiasco di vino, ne versava per noi due, poi mi offriva da fumare o ne accettava da me. Infine si chiacchierava. Carlo era un gran macinatore di politica e con me parlava a lungo dei fatti più recenti dimostrando di possedere un grado di informazione eccellente. A volte il suo discorso si fermava, qualcosa di importante gli era sfuggito. In quei casi dovevo aggiornarlo sulla novità che gli mancava. Nelle sue conclusioni c’erano frasi del tipo - eh, caro mio, non ci si può fidare di nessuno… - oppure - chissà dove andremo a finire... - In quelle parole tuttavia egli metteva un tono di affetto, come se volesse intendere - sono bambini, non lo fanno per cattiveria, ma è meglio stare attenti. - Il suo sentimento verso tutto ciò che avveniva nel mondo era buono e sincero, però prudente.
Carlo aveva occhi di colore celeste e capelli bianchissimi, e quando si passavano quei pomeriggi insieme, spesso sorrideva. Non ho mai visto nessun altro di quella età, se si esclude la mia nonna materna, sorridere in modo così innocente. La vecchiezza non è quasi mai un dono gradito, e molti anziani - paradossalmente, ora che la medicina ci fa invecchiare con maggiore facilità - esprimono tristezza e senso di delusione. Carlo esprimeva letizia.
Nel laboratorio, oltre alle cornici, c’erano diversi dipinti, cose che Carlo chiamava: “i miei soggetti”. Boschi, colline, ruderi e molti altri scorci di paesaggio, una specie di campionario per la decorazione di soffitti e pareti. Ne aveva molti arrotolati che occupavano il piano basso dei banconi. In diverse occasioni me li mostrò, spiegandomi da quale palazzo li avesse copiati e in quale altro riprodotti. Una volta aggiunse: “Io sono l’ultimo della scuola dei Carracci”.
Un pomeriggio Carlo era alle prese con un lavoro piuttosto complesso, un acquerello che riproduceva una piazza della città. Il vecchio ci stava lavorando con puntiglio. Non erano pochi coloro che lo cercavano per rifare parti danneggiate di dipinti antichi, in particolare paesaggi del seicento e del settecento, la sua vera specialità. Fu in quel pomeriggio che gli domandai se poteva fare qualcosa per me. Sulle prime rise, poi si dispose ad ascoltare la mia richiesta. Si trattava di riprodurre un quadro inglese dell’ottocento che ritraeva un veliero nel corso di una regata. Avevo visto il dipinto sulle pagine di una rivista e desideravo averne una copia su tela.
-Non credo ci sia nulla del genere tra i miei soggetti, disse, ma lo lasci qui e vedremo cosa si può fare.-
Quando dopo due mesi mi consegnò l’opera finita, rimasi senza parole. Essa non aveva nulla in comune col quadro a cui era ispirato. Il mare scuro era diventato una distesa di onde multicolori che la prua dello scafo tagliava in due bianche ali di spuma. Sotto la chiglia traspariva l’abisso e il cielo azzurro era cosparso di nubi rosa e gialle. Per sottolineare l'ambientazione marina, Carlo aveva eseguito una cornice con tante piccole onde, una Gandolfi, mi disse.
La vecchiezza delle suppellettili non era l’unico motivo di attenzione che la casa dei miei vicini offriva, in essa si respirava un’aria strana. Dalla bonarietà di quel mondo antico filtrava una nota indefinibile, qualcosa di segreto e tragico. Forse era per via degli specchi, pensai un giorno, la casa ne era piena. Ve ne erano su tutti i muri, piccoli e di forme irregolari: losanghe, triangoli di vario disegno, semilune, trapezi. La caratteristica che li accordava era l'irregolarità delle sagome.
Fu molto più tardi che il mistero degli specchi mi venne svelato e insieme a quello, l’altro ben più drammatico che vi si celava. Era una delle ultime visite che rendevo ai miei amati vicini, il municipio aveva offerto loro una camera in un istituto per anziani. Perché gli ospiti non si sentissero spaesati, la direzione consentiva loro di condurre una parte del vecchio arredo. La superficie delle nuove pareti però non poteva ospitare tutto ciò che Carlo e Tina possedevano. Carlo quel giorno stava giusto scegliendo cosa portare nella nuova dimora, quando il discorso cadde sugli specchi. Tina era del parere di cederli tutti, Carlo decise che almeno uno doveva essere conservato.
-Una bomba fece cadere la nostra casa, mi spiegò, ma da tempo noi eravamo altrove. Passando dopo il bombardamento, vidi tra le macerie del palazzo una grande specchiera che la bomba aveva mandato in frantumi. La riconobbi per quella che la nostra famiglia teneva in salotto. La notte seguente, di nascosto, recuperai qualche pezzo. Le cornici le ho applicate in un secondo tempo.-
Dunque gli strani specchi della loro casa erano schegge di affetti lontani. Ma perché incorniciarli tutti? Per ricordare la vecchia dimora sarebbe bastato tenerne un pezzo, casomai in un cassetto. Vi era qualcosa che non capivo.-
La risposta venne dalla Tina, involontariamente credo, anche se ho sempre avuto il sospetto che trattandosi di un addio essi avessero deciso di rivelarmi il segreto della loro vita per farmene dono. Stavamo sfogliando l’albo dei lavori eseguiti da Carlo. Comparve l’immagine di un patriarca scolpito nel marmo.
-Quella è opera mia, esclamò Tina, da giovane ho fatto la scultrice e ciò che vede è il mio capolavoro. Peccato che per badare a Carlo io abbia smesso di scolpire. Ora quest’opera si trova in Russia, in un museo.-
Guardai la foto e le chiesi di chi si trattava.
-Egli è il nostro gran padre Isacco, mi disse.-
Vi fu un attimo di silenzio, Carlo guardò la sorella. Tutti quanti rimanemmo senza parole. Il vecchio riprese:
- Quando i nazisti occuparono la città, noi ebrei cercammo riparo in altri quartieri, per quello la bomba ci risparmiò. Io mi recavo spesso a dare un’occhiata alla nostra vecchia casa, e ricordo la tristezza che provavo nel non poter entrare. Un bombardamento fece crollare il palazzo e quando mi fu possibile andarci non credetti ai miei occhi vedendo che là, sopra i calcinacci, si trovava la specchiera dei nostri genitori, esplosa in mille pezzi. Se non fossimo stati ebrei, saremmo stati divisi in mille pezzi anche noi. A volte la vita ci stupisce, caro amico e dove sia il male peggiore, tra i tanti che ci stanno intorno, nessuno lo può sapere. Rischiando di venire identificato, ne presi più che potevo, di quei vetri, poi mi misi a incorniciarli. Era stato uno specchio molto grande e molto bello ed ora non rimanevano che frammenti, eppure ognuno di quei frammenti non aveva perso la capacità di riflettere la luce.
-Cosa vuoi che importino queste cose vecchie al nostro giovanotto, disse Tina, ma era chiaro che non lo pensava affatto.-
Lo rividi un anno dopo, Carlo. Vestito di tutto punto, con l’elegante cappello che gli avevo visto sempre in capo - ora sapevo perché - parlare con un giovane medico nel corridoio dell’istituto che ospitava lui e la sorella.
Ci salutammo con calore, poi a mezza voce mi disse:
-C’è una cosina nel mio polmone sinistro. Io però sto benone, ho solo un po’ di tosse. Adesso vada a salutare la Tina, ma non le dica nulla, mi raccomando.-
Sorrise prima di voltarsi, poi seguì il medico.
Quella è stata l’ultima volta che ho visto Novello Carlo, l'ultimo dei Carracci. Sulla parete dietro al mio letto, racchiusa in una cornice Gandolfi scolpita nel cirmolo, la sua nave continua a solcare il mare lanciando cascate di spruzzi, iridescenti come frammenti di specchi.
Vorrei che questa novella fosse frutto della mia fantasia, essa contiene tutte le cose che ci vogliono per rendere bella una storia. Vi si agita un dramma, è percorsa dal mistero, termina con una sorpresa, e soprattutto mostra che per quanto possa essere grande la malvagità umana, l'immaginazione la sconfigge. Vorrei averla inventata io perché chi la legge possa pensare che l'autore è un genio della penna. Invece ciò che ci sta scritto è tutto rigorosamente accaduto. Io mi sono limitato a raccontare parte della vita di Tina e Carlo che sono esistiti veramente nella città di Bologna e che continuano a vivere nel mio cuore.